16 Giu Il senso della deprivazione: Ramy e il diritto negato
Deprivazione è una parola dura e difficile. Ha molto più dell’effetto di un graffio sull’anima, quando le sono accostate altre parole come diritti umani o libertà di espressione. La sua etimologia deriva dal latino privāre e prīvus, letteralmente togliere qualcosa a qualcuno, negare che altri possano soddisfare un proprio bisogno o esaudire un desiderio, mentre il prefisso de- è legato all’influenza del verbo inglese to deprive.
E “deprivation of human rights” è un’espressione che spesso ricorre quando parlo con Ramy Balawi, un amico conosciuto ormai circa tre anni fa grazie ai social network, ma mai incontrato di persona. Ramy è palestinese, ha 29 anni e vive a Gaza, “prigioniero tra le mura di una tomba aperta”, come spesso chiama la sua terra.
La sua vita è tutt’altro che semplice. Cresciuto tra le bombe e le macerie di un paese martoriato, in questi anni Ramy ha perso tutta la sua famiglia: laddove non sono arrivati i bombardamenti, è sopraggiunta la deprivazione del diritto alle cure adeguate e alla libertà, in una quotidianità fatta di stenti continui. Gli ultimi devastanti lutti, quelli della madre e del fratello più piccolo, lo hanno gettato in un profondo pozzo di disperazione, dal quale con estrema difficoltà prova a riemergere per tirare qualche affannato respiro, prima di essere inghiottito di nuovo da un incubo che sembra non conoscere fine.
Nella cultura e nei suoi studenti, Ramy – insegnante di storia a Gaza – trova la forza di guardare avanti, oltre il senso di deprivazione, e di coltivare la voglia di ricevere un’educazione ancora maggiore, come solo un corso universitario può dare. Negli scorsi mesi, spinto da questo forte desiderio, ha inviato la propria candidatura d’iscrizione a due università americane, la Capilano University in Canada e la Portland State University negli Stati Uniti: entrambe hanno accettato la sua domanda. Quest’apertura inaspettata ha riacceso in Ramy la speranza di un futuro diverso, in cui trovare un sollievo dalle sue profonde sofferenze.
Dopo aver avviato la richiesta del visto, l’8 giugno avrebbe dovuto svolgere un colloquio presso il consolato USA e l’ambasciata canadese a Gerusalemme: sul muro di confine con Israele si è però infranto il sogno di voltare pagina e di provare a lasciarsi alle spalle un passato drammatico.
«Israele non mi ha permesso di attraversare la frontiera, nonostante avessi tutte le carte e i documenti in regola, nonché le prove di avere un appuntamento con il consolato statunitense e l’ambasciata canadese», spiega Ramy Balawi. «Non hanno dato spiegazioni sul rifiuto: questo significa che perderò il mio posto all’università e sarò deprivato del mio diritto all’educazione, nonostante sia parte dei diritti dell’uomo».
Dopo aver ricevuto il diniego ed essere ripiombato nel baratro della disperazione, Ramy ha interpellato il Palestinian Center for Human Rights, un’organizzazione umanitaria indipendente per i diritti umani dei palestinesi, che però non ha potuto fare nulla per risolvere il problema. Anche il presidio degli Stati Uniti a Gerusalemme si è detto impotente in questo caso, poiché “di norma, il Consolato Generale non è coinvolto nel processo di autorizzazione del governo israeliano”.
L’unica speranza per Ramy sarebbe, forse, l’intervento di un’organizzazione umanitaria internazionale, che possa mediare con Israele per poter far valere il suo legittimo diritto a essere istruito. “Sono molto triste, perché mi sento come se non fossi umano dal momento che non posso godere dei miei diritti umani. Quale crimine ho commesso?”, mi chiede nella disperazione. “Perché vengo punito mentre desidero vivere come gli uomini, in amore, libertà, pace? Ho diritto a ricevere un’alta educazione, affinché possa aiutare i miei studenti con la mia esperienza e possa essere la loro voce nel mondo”.