Il dramma delle donne senza volto
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Il dramma delle donne senza volto

Non è facile essere donna. E non lo è soprattutto in quei paesi in cui la dignità, il rispetto e i diritti dell’universo femminile non sono solo ignorati, ma oltraggiati, sbeffeggiati e violentati ogni giorno. Oggi voglio parlare del Pakistan e della consuetudine, da parte di mariti gelosi, pretendenti rifiutati o semplicemente di uomini che ritengono di essere stati “lesi nell’onore”, a gettare acido sul volto delle donne.

L’acido sfigura irreversibilmente i volti e il corpo delle sue vittime, le colpisce nel fisico e nel profondo dell’anima, cambia in modo radicale e inevitabile le esistenze, laddove l’unica presunta “colpa” è quella di aver posto un rifiuto o di aver assunto comportamenti (discutibilmente) disdicevoli. Secondo l’Acid Survivor Fundation, nel 2011 in Pakistan sono state 150 le donne deturpate da attacchi con acido, un numero in crescita rispetto al biennio precedente (43 nel 2009 e 55 nel 2010). Nel 2012 i casi continuano a essere frequenti, nonostante dallo scorso dicembre sia reato utilizzare sostanze corrosive contro qualcuno. I giornali pakistani riportano spesso bollettini di questo tipo: stando all’Express Tribune,  l’attacco più recente risale al 9 agosto, quando Bibi Afza Rashid, impiegata scolastica, è stata inseguita da due uomini: una volta raggiunta, è stata prima pugnalata e poi sfigurata con l’acido. I responsabili dell’attacco, che sono stati identificati, avrebbero voluto così fare pressioni sul marito in relazione a una controversia su una proprietà. Un altro caso riguarda due donne, madre e figlia, aggredite con liquido corrosivo da un pretendente respinto, Muhammad Ijaz. La madre, Uzma Bibi, di 35 anni, è morta per le ustioni riportate, mentre la figlia ce l’ha fatta ed è stata dimessa dall’ospedale. In questa circostanza, la giustizia pakistana ha fatto il suo corso: la corte ha fatto appello alla Sezione 302 del Codice Penale del Pakistan e alla Sezione 7 della Legge Anti-Terrorismo e l’uomo è stato giudicato colpevole e sarà condannato a morte, dopo che avrà scontato 28 anni di carcere e pagato multe milionarie che comprendono anche un risarcimento all’erede della defunta.

Nonostante i passi in avanti dal punto di vista legislativo, la brutale pratica si sta comunque estendendo anche oltre i confini del Pakistan e coinvolge paesi come India, Cambogia, Bangladesh e Afghanistan. Anche in Sud-America, precisamente in Colombia, sono stati registrati diversi casi negli ultimi anni. Nella regione del Kashmir, che si trova tra Pakistan, India e Cina e la cui giurisdizione è suddivisa tra i tre paesi di confine, le donne che non portano il velo o che saranno sorprese a parlare al cellulare per strada rischiano di subire attacchi con acido o di essere uccise: è questa la minaccia a loro rivolta da un gruppo musulmano integralista molto vicino ad Al-Qaeda. Negli scorsi giorni, infatti, sui muri delle moschee sono stati appesi avvisi che hanno allarmato popolazione e polizia, firmati dai Mujaeddin di Al-Qaeda e dal gruppo Lashkar:

Ci appelliamo al pubblico affinché si assicuri che le donne osservino il purdah (che ricopre la testa e il volto) nei luoghi pubblici. Se vedremo una donna senza purdah, le spruzzeremo acido sulla faccia. Se vedremo una ragazza usare il cellulare, sarà uccisa.

La polizia sta facendo indagini per individuare i responsabili di queste affissioni: secondo S. M. Sahai, ispettore generale della polizia del Kashmir, si tratterebbe di una campagna di militanti integralisti per radicalizzare la regione, dopo che le infiltrazioni dal Pakistan in Kashmir sono state notevolmente ridotte.

Sharmeen Obaid Chinoy

Quello degli attacchi con l’acido è un dramma di cui anche il grande schermo si è occupato: in Italia se n’è parlato poco, ma all’ultima edizione degli Oscar il premio per il miglior documentario breve è andato a una giovane regista pakistana, Sharmeen Obaid-Chinoy, e al suo collega statunitense, Daniel Junge, i quali, con Saving Faces, hanno offerto testimonianze dirette di questa tragedia quotidiana. Sharmeen ha una storia singolare, che l’ha portata in giovane età a trasferirsi dal Pakistan agli Stati Uniti: a 14 anni la ragazza inizia a scrivere per un giornale locale, ma già all’età di 17 si ritrova in pericolo di vita e costretta a nascondersi in seguito a un’inchiesta su una banda che, armata di fucili, terrorizzava i bambini di Karachi, la sua città. A 22 anni si trasferisce negli Stati Uniti per proseguire gli studi ed è qui che il suo lavoro inizia a essere premiato: Children’s terror, una pellicola sulla condizione dei bambini afgani rifugiati dopo l’invasione statunitense post 11 settembre, ha vinto diversi riconoscimenti e premi, aprendole così la strada alla possibilità di raccontare le ingiustizie, proprio come agli esordi della sua carriera. Saving Faces rientra in questo suo personale progetto. «Io potrei essere una di quelle donne», ha raccontato a El Paìs «Se fossi nata in un’altra famiglia, in un altro contesto economico e sociale, avrei potuto essere perfettamente una delle 150 vittime che denunciano annualmente gli attacchi, o una delle centinaia di donne che li soffrono in silenzio, o una delle migliaia, se contiamo quelle degli altri paesi. Per questo, come donna, ho il dovere di dar loro voce». La vittoria dell’Oscar di questa pellicola ha portato un entusiasmo enorme in Pakistan. I riflettori di tutto il mondo sulla vicenda denunciata ha però portato anche ombre: la protagonista della pellicola, nonché ispiratrice del documentario, Rukhsana Mukhtar, 25 anni, ha dovuto fronteggiare le ostilità della famiglia per questa improvvisa popolarità e infine fuggire dalla sua casa e dal suo villaggio, Muzaffargarh, per paura che potesse capitarle qualcosa di ancora peggiore dell’acido che le ha corroso il volto nel 2009, durante una lite col marito. Ora è rifugiata a Islamabad, protetta dall’Acid Survivor Fundation che le ha permesso anche di accedere agli interventi di ricostruzione del viso.

Fakhra Younas prima e dopo l’attacco con l’acido

Ma a fronte della speranza di riuscire ad andare avanti nonostante il grave trauma e il continuo promemoria della violenza subita ogni volta che ci si specchia, non è così inusuale che qualcuna decida di non combattere più e porre fine a un tormento quotidiano senza fine. Come è accaduto nella storia di Fakhra Younas. Fakhra era una ragazza bellissima, che di mestiere faceva la ballerina. Proveniva da una famiglia povera e disagiata: con la madre che lavorava come prostituta, la sua infanzia non fu delle più felici. Una volta cresciuta, Fakhra va ben presto in sposa a Bilal Khar, un uomo ricco, violento e gelosissimo, appartenente a una potente famiglia pakistana. Costretta a subire umiliazioni e vessazioni, decide di chiedere il divorzio dal marito e torna a vivere con la madre. Una sera, qualcuno fa irruzione nella casa: il marito, completamente ubriaco e in compagnia di alcuni complici, la immobilizza e le versa sul corpo e sul volto una grande quantità di acido. Il tutto avviene mentre in casa è presente il figlio della coppia, Nauman. La bellezza di Fakhra – appena ventenne – svanisce, corrosa dal liquido e dalla follia del marito. La ragazza entra in contatto con l’associazione Smile Again e con il suo aiuto arriva in Italia insieme al figlio. A Roma si sottopone a 39 delicati interventi di ricostruzione del viso, con il dott. Valerio Cervelli. L’impresa è ardua, ma lentamente si vedono dei miglioramenti, una parvenza di volto ricomincia  a prendere forma. Nel frattempo la donna diventa un simbolo, scrive il libro Il volto cancellato in cui racconta la propria storia e denuncia ciò che accade alle donne nel suo paese. Ma nonostante questo, le ferite dell’anima non si rimarginano. Il 17 marzo di quest’anno, dopo undici anni dalla violenza subita, Fakhra pone fine alla propria esistenza lanciandosi dal sesto piano di un palazzo in via Segre, nel quartiere di Tor Pagnotta a Roma. È suo figlio Nauman, 17 anni, a trovare il suo corpo tornando da scuola. Bilal Khar, l’ex marito, nonché cugino dell’attuale ministro degli esteri Hina Rabbani Khar, ha scontato solo sei mesi di carcere in virtù della sua agiata posizione sociale. Si proclama tuttora innocente.